«Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare e semplici ...»
La prima edizione risale al 1764. Tempo di leggerlo ce n’é stato. Ci sarà anche il tempo di rileggerlo; volendo. Non volendo, continuerà a restar sotto la polvere. Quello, come tanti altri. Breve saggio di Cesare Beccaria: «Dei delitti e delle pene», che al paragrafo XLI recita: «Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi siano chiare, semplici e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impegnata a distruggerle.». Bisognerebbe, poi, spingersi oltre e – magari – comprendere quale debba essere la «funzione della pena». Ma sarebbe chieder troppo. Ed è così che da vent’anni almeno, la diatriba: se una sentenza di «applicazione della pena su richiesta» con accordo delle parti, ex art. 444 c.p.p. sia una sentenza di condanna oppure no. Quindi, se la stessa debba essere riportata sulla dichiarazione sostitutiva di atto notorio – ex art. 46 c. 1 lett. aa) del D.P.R. 445/2000 – da produrre «a tutte le amministrazioni pubbliche ed agli enti incaricati di pubblici servizi, quando il certificato è necessario per provvedere ad un atto delle loro funzioni, in relazione alla persona cui il certificato stesso si riferisce». Detta dichiarazione a norma del D.P.R. citato, autocertifica «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa.». Essere obbligati a riportare sentenze ex art. 444 c.p.p. è questione di non poco momento. Soprattutto quando la dichiarazione in parola dev’essere rilasciata ad un organo che ha ampio potere discrezionale in merito alla propria successiva decisione. Potere discrezionale e, quindi, il più delle volte, non sindacabile; e, quando lo è, con pochissime probabilità di successo, dato che i ricorsi ammessi sono quasi sempre quelli gerarchici. Così, finalmente, la Suprema Corte si arresta su tale questione, apparentemente irrilevante, con la Sentenza 37556 depositata l’11.09.2019. La Corte di Appello di Ancona aveva riformato la sentenza di assoluzione del Tribunale di Pesaro nei confronti di Tizio, condannandolo alla «pena di giustizia, per i reati, riuniti per continuazione, di falsa attestazione in una domanda di inserimento nelle graduatorie per il triennio 2011-2014 per il personale A.T.A. di non aver riportato condanne penali, mentre invece a suo carico vi era un precedente definitivo di applicazione di pena su richiesta, e di truffa aggravata, poiché la predetta falsa attestazione aveva indotto in errore l’ufficio scolastico regionale competente, che aveva inserito Tizio fra i soggetti idonei a ricevere incarichi scolastici per la provincia di Pesaro-Urbino, e a seguito di ciò egli aveva ricevuto un incarico di lavoro a tempo determinato.». Tizio, ricorrendo per cassazione, ha proposto tre motivi, tra i quali: «nell’autocertificazione in ordine all’assenza di precedenti condanne, [Tizio] le aveva escluse a proprio carico in quanto la sentenza di patteggiamento non è in senso proprio una sentenza di condanna, come si evince leggendo gli effetti dell’applicazione di pena su richiesta descritti dall’art. 445 c.p.p.». La Cassazione, dopo articolata motivazione, accoglie il ricorso di Tizio concludendo che non si è tenuti «ad indicare le iscrizioni dei provvedimenti previsti dall’art. 445 c.p.p. quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria». Cassa la sentenza senza rinvio perché il fatto non sussiste. E sia !!!
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